07-Sep-21 · La personalità
Meccanismi di difesa, come la mente ci protegge dall'ansia
I meccanismi di difesa entrano in funzione soprattutto sotto stress e ci aiutano a difenderci da situazioni dolorose, angoscianti o conflittuali.
I meccanismi di difesa sono meccanismi psichici consci e – più spesso – inconsci, con cui la nostra mente si difende da situazioni dolorose, angoscianti o conflittuali, derivanti sia dall’ambiente esterno che dal mondo interno.
Tutti li possediamo e li utilizziamo nella vita quotidiana, anche se entrano in funzione soprattutto sotto stress per non farci provare un’ansia eccessiva. Ognuno tende a usare alcuni meccanismi in modo stabile. Di per sé sono normali e adattivi, tuttavia se utilizzati in modo troppo intenso e rigido possono creare difficoltà e diventare disfunzionali ostacolando le relazioni o distorcendo la realtà.
I meccanismi di difesa più evoluti
In questa prima parte approfondiremo i meccanismi più evoluti e maturi. Qui di seguito, un elenco dei principali:
Negazione: quando mettiamo in atto una negazione, rifiutiamo di riconoscere e ammettere sentimenti, comportamenti, intenzioni o dati di realtà che dall’esterno appaiono abbastanza palesi. Ad esempio, possiamo dire di non essere per niente delusi dopo una mancata promozione che sembrava ormai certa, o di non provare affatto preoccupazione dopo una diagnosi di tumore.
Razionalizzazione: consiste nel fare ragionamenti che distorcono i fatti e le reali motivazioni di un accadimento o di un comportamento, per darci una spiegazione che ci rassicura e protegge dal senso di colpa. Ad esempio, sosteniamo che non abbiamo superato un esame perché era troppo difficile o perché siamo antipatici al professore, piuttosto che prendere atto di essere andati impreparati.
Ipocondria: ci difende dall’ostilità che proviamo verso gli altri ma che non riusciamo ad ammettere ed esprimere direttamente. Allora ci lamentiamo di continui disturbi per poi rifiutare le cure e indurre negli altri un senso di impotenza. La rabbia destinata agli altri è perciò espressa in una forma distorta, attraverso la lamentela somatica che resiste ad ogni proposta di soluzione.
Intellettualizzazione: consiste nell’usare spiegazioni logiche, teorie, discorsi filosofici e astratti per evitare che emergano le emozioni. In questo modo un fatto fortemente connotato emotivamente è trattato in modo freddo e anaffettivo.
Formazione reattiva: sostituisce un sentimento o impulso inaccettabile con il suo opposto. Tipicamente, diventiamo esageratamente gentili con qualcuno per cui invece, inconsciamente, proviamo ostilità e rabbia. Esempi sono il bambino estremamente premuroso con il fratellino che in realtà detesta, o il figlio che accudisce con dedizione assoluta un genitore anziano che in realtà vorrebbe abbandonare a sé stesso
Rimozione: allontana dalla coscienza un contenuto disturbante, perciò non ricordiamo più un evento accaduto, oppure non siamo consapevoli di desideri e sentimenti che ci turberebbero. Può riguardare fatti traumatici come una violenza subita, il cui ricordo può riemergere all’improvviso dopo molti anni, ma anche accadimenti più comuni che però ci disturbano, per cui dimentichiamo completamente il temuto appuntamento dal dentista.
Spostamento: un sentimento disturbante viene spostato dalla causa originaria a un altro oggetto sostitutivo che può essere affrontato più facilmente perché meno minaccioso. Ad esempio, l’ansia di doversi sottoporre a un importante intervento viene spostata sul saggio di musica del figlio, che diventa motivo di preoccupazione che occupa la mente.
Sublimazione: quando sublimiamo, incanaliamo un impulso (aggressivo o sessuale) che sarebbe sconveniente o che non può essere appagato, in modi più accettabili socialmente, potendolo così soddisfare. L’esempio più classico di sublimazione è quella del chirurgo, che soddisferebbe attraverso un lavoro accettato impulsi sadici, o del pugile, che sublimerebbe nello sport impulsi aggressivi.
Repressione: è attuata in modo consapevole quando volontariamente decidiamo di non pensare a un problema che ci angoscia, oppure mettiamo a tacere un’emozione che riteniamo sconveniente. Non dimentichiamo il problema come accade nella rimozione, ma decidiamo coscientemente di rimandarlo a un altro momento.
Isolamento: le emozioni associate a un’esperienza vengono allontanate. Ricordiamo un fatto accaduto (diversamente dalla rimozione, in cui cancelliamo tutto), ma perdiamo il contatto coi sentimenti associati. Possiamo così di raccontare qualcosa di grave che ci è accaduto senza che traspaia alcuna emozione.
Anticipazione: immaginiamo una situazione che ci preoccupa prima che accada e pensiamo alle possibili soluzioni. Molti la reputano una modalità sbagliata di affrontare ciò che spaventa. In realtà chi la utilizza ne trae vantaggio perché si sente più sicuro, avendo già predisposto possibili soluzioni, e perché diluisce l’angoscia dell’impatto dell’evento, sperimentandola già prima.
Umorismo: quando ironizziamo su situazioni difficili o sui nostri difetti, alleviamo la tensione e l’imbarazzo degli altri e facilitiamo condivisione e comunicazione.
Altruismo: occupandoci dei bisogni degli altri, consoliamo anche noi stessi aumentando la nostra autostima, oppure distogliamo l’attenzione dai nostri problemi ed evitiamo l’angoscia concentrandoci su quelli degli altri.
I meccanismi di difesa più primitivi
Passiamo ora in rassegna i meccanismi di difesa più primitivi e arcaici, presenti già nel bambino piccolo. Come già sottolineato, anche questi meccanismi di difesa non sono di per sé patologici, sono anzi necessari per gestire eventi stressanti o emozioni interne disturbanti, ma se usati in modo eccessivo possono creare difficoltà o veri disturbi psichici. Ecco l’elenco dei principali:
Diniego: a differenza della negazione, in cui neghiamo un affetto, come ad esempio l’essere preoccupati per un tumore, nel diniego neghiamo proprio l’esperienza della malattia, rifiutando di credere che abbiamo un tumore. Se in certi momenti questo può essere adattivo per evitare un’angoscia eccessiva e per darci forza, in altri ci mette a rischio inducendoci a non curare una patologia. Allo stesso modo, se neghiamo che siamo alcolisti, o che nostro figlio bullizza i compagni, non ci attiviamo per risolvere il problema.
Scissione: usiamo la scissione quando separiamo nettamente qualità o stati mentali che normalmente coesistono, ad esempio il buono e il cattivo, dando luogo a un pensiero del tipo “tutto o nulla”. Non tollerando che la realtà affettiva nostra e degli altri sia ambivalente e ricca di sfumature, percepiamo le persone o come completamente buone o completamente cattive, una divisione estrema che non corrisponde alle situazioni molto più complesse che incontriamo nella realtà. Spesso idealizzazione e svalutazione della stessa persona si alternano: in certi periodi la adoriamo, in altri la disprezziamo.
Dissociazione: nella dissociazione le nostre attività mentali si scindono in settori paralleli, per cui in certi momenti possiamo avere comportamenti che poi non ricordiamo. Accade normalmente nella vita quotidiana, come quando durante una conferenza noiosa o un tragitto in auto ripetitivo la nostra mente “stacca” divagando altrove, e magari ci ritroviamo ad aver guidato fino a un certo punto senza ricordare la strada percorsa fin lì. A un livello più grave, possiamo dissociare eventi traumatici, come uno stupro, che viene vissuto come se accadesse a qualcun altro per evitare l’impatto dell’angoscia. L’estremo della dissociazione è la personalità multipla, in cui si strutturano vere e proprie identità plurime che procedono parallelamente.
Idealizzazione e svalutazione: le utilizziamo quando ci formiamo una visione di noi, degli altri o degli oggetti attribuendo delle caratteristiche onnipotenti o estremamente negative che non corrispondono alla realtà. Vediamo gli altri perfetti, o al contrario abbiamo una visione esageratamente negativa di noi e degli altri. Insieme alla scissione, ci evita di dover tollerare l’ambivalenza e l’ambiguità del mondo affettivo e relazionale.
Identificazione: quando ci identifichiamo con qualcuno, ne assumiamo le caratteristiche, tratti e qualità, soprattutto se dobbiamo separarcene o se lo perdiamo: «Se non posso averlo, sarò come lui». Avviene tipicamente nel lutto, quando ci mettiamo a fare qualcosa che faceva la persona morta, oppure adottiamo certi suoi modi di dire o di fare. Questo ci serve ad attenuare il dolore della perdita.
Proiezione: attribuiamo agli altri sentimenti che non accettiamo e riconosciamo in noi stessi: pensiamo che qualcuno trami contro di noi quando siamo invece noi a provare rabbia, o siamo gelosissimi del partner quando in realtà siamo noi a provare l’impulso di tradire. Critichiamo queste qualità o impulsi negli altri evitando il confronto col fatto che sono in realtà nostri prodotti mentali, che vengono scissi e proiettati sugli altri. Se usato all’eccesso, questo meccanismo dà luogo al fenomeno della paranoia.
Identificazione proiettiva: è più complessa della proiezione: oltre ad attribuire a un altro una mia emozione o impulso (“Tu provi ostilità per me” quando in realtà sono io che provo rabbia), mi comporto in modo tale da spingere l’altro a provare veramente ostilità verso di me, confermando così le mie aspettative. È molto disturbante per il destinatario dell’identificazione proiettiva, che si ritrova a provare un’emozione che non è la sua ma che gli viene “messa dentro”, inducendo una sgradevole confusione.
Somatizzazione e conversione: sentimenti dolorosi vengono trasferiti nel corpo dando luogo a sintomi fisici che non sono collegabili, in tutto o in parte, a un problema organico. Così lamentiamo dolore o disfunzione fisica, ma siamo protetti da angosce o conflitti interiori.
Regressione: significa tornare indietro a uno stato precedente: tipicamente, il bambino che di fronte a un evento stressante come la nascita di un fratellino o una malattia di un genitore, regredisce perdendo funzioni già acquisite e magari torna a fare pipì a letto, oppure parla come un bimbo molto più piccolo, o non vuole più mangiare a tavola e pretende il biberon. Accade anche a noi adulti, ad esempio quando durante una malattia diventiamo più passivi e arrendevoli: utile a non farci sprecare energie e ad accettare cure sgradevoli, ma limitante se restringe troppo il nostro campo vitale.