21-Jun-19 · Educazione del bambino
«Ma se poi piange?», i genitori e la frustrazione dei figli
Molti genitori non reggono la frustrazione dei figli e si sentono in colpa se mettono dei limiti, pensando di farli soffrire.
Non sono capaci di sopportare la frustrazione. Non sono educati a tollerare un limite. Sono abituati ad avere tutto. Non reggono un “no”. Quando assistiamo a terribili episodi di cronaca in cui ragazzi sono responsabili di crimini e di violenze, o quando si verificano suicidi di adolescenti, la spiegazione degli esperti ruota generalmente attorno a una difficoltà a reggere frustrazione, sofferenza, limiti. «Com’è possibile arrivare a tanto? Cosa scatta nella loro mente?», è l’interrogativo che sgomenta tutti. Come se questi ragazzi ci diventassero tutto ad un tratto estranei, incomprensibili, come se qualcosa di improvviso e imperscrutabile si inserisse violentemente nel normale corso del loro sviluppo e delle loro esistenze.
A me invece viene subito alla mente l’immagine di un lungo filo conduttore, lo visualizzo proprio come una sottile linea rossa che da quel terribile momento presente si snoda indietro e ancora indietro, fino a risalire ai primi periodi di vita di quei bambini. Mi viene facile, quasi spontaneo, perché ho lavorato negli asili nido ed è a quella esperienza che ripenso ogni volta che anche io mi chiedo “Ma come si può arrivare a tanto?”. Di quel periodo della mia vita professionale ricordo infiniti, piccoli episodi che quotidianamente testimoniavano la fatica dei genitori ad educare i loro bambini al senso di un limite, e soprattutto, la loro difficoltà a reggere il dispiacere o la contrarietà dei loro figli.
I momenti dell’arrivo al mattino al nido e della partenza erano quelli più significativi. Arrivava la bimba di due anni con le puntine da disegno strette in mano – ovviamente pericolosissime -, perché «Non sono riuscita a levargliele, non vuole!»; poi il bimbo di un anno che invece in mano serrava le pile a stilo, sempre perché «Non siamo riusciti a toglierle!». Al momento di ripartire, c’era la bimba che non voleva mettere il cappotto, e dopo un quarto d’ora la mamma sospirava «Eh, tocca aspettare!», o il bimbo che scorrazzava per non farsi prendere e il papà ostaggio silenzioso, in attesa che il piccolo decidesse di andare finalmente a casa. Al momento dell’inserimento, quando ci informavamo sulle abitudini dei bimbi, ricevevamo richieste bizzarre: «Mia figlia deve dormire sul pavimento; non provate a metterla in un letto, perché lei vuole così»; «Lei i bisogni vuole farli sotto l’albero in giardino…sì, lo so che è strano, ma se la porto al bagno poi piange!».
Ogni volta, il timore dei genitori era sempre lo stesso: «Ma se poi piange?». «Sì, lo so che è pericoloso lasciarle in mano le puntine, ma se provo a toglierle poi piange e mi dispiace!»; «Lo so che non è sano che dorma sul pavimento, soprattutto quando fa freddo, ma se non la lasciamo fare poi piange e per me è uno strazio»; «Mi fa fare sempre tardi al lavoro perché non vuole venir via da qui…ma mica posso prenderlo di forza, se poi piange?».
Il disagio e la frustrazione dei loro bimbi erano percepiti come qualcosa di troppo grande, era come infliggere loro una sofferenza ingiustificata che li faceva sentire in colpa. Tuttavia, la soluzione che mamme e papà proponevano era di solito: «Fallo tu». Levagliele tu le puntine; per favore, tirala fuori tu da sotto il tavolo; mettiglielo tu il cappotto. Non tanto perché quando lo facevamo noi educatrici il bimbo non piangesse: la cosa importante, più che altro, era che non piangesse per colpa loro, della mamma e del papà. «Non sono io a provocarti questa sofferenza», sembrava essere la preoccupazione maggiore. Perché nel pianto e nelle proteste del proprio bambino, molti genitori vedevano non solo un dolore insopportabile per il piccolo, ma soprattutto il pericolo di perderne l’amore e l’approvazione.
Oggi non faccio più l’educatrice nei nidi, ma nel mio lavoro di psicoterapeuta, in particolare con famiglie di bambini che manifestano un qualche sintomo, ritrovo costantemente questa esitazione a porre regole e limiti per la paura di perdere il legame d’amore coi figli: «Poi ce l’ha con me e io non voglio, ci deve essere armonia tra di noi», «Quando poi mi tiene il muso mi dispiace così tanto», «Mi dice che la mamma del suo amichetto è brava e io invece sono cattiva , e io mi sento male».
Così, fin dai primi momenti di vita, questi bambini non possono sperimentare che esistono limiti, che si può essere capaci di sopportarli, che il dispiacere per una frustrazione – e inevitabilmente il mondo li sottoporrà a qualche frustrazione – può essere tollerato ed elaborato, che attraverso l’accettazione del limite si impara anche a rispettare gli altri.