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14-Nov-20 · Ansia, depressione, traumi

Ansia da prestazione, come gestirla

Una certa quota di ansia accompagna normalmente ogni prova, ma quando diventa eccessiva  influisce negativamente sulla prestazione.

Sostenere un’interrogazione o un esame a scuola o all’università, cimentarci in una gara sportiva, esibirci in pubblico suonando uno strumento o recitando: sono esempi di situazioni in cui ci viene richiesta una prestazione, ovvero in cui il nostro comportamento o la nostra attività viene valutata rispetto alle nostre capacità, al nostro impegno e al risultato ottenuto.

Le prestazioni suscitano in genere una certa dose di apprensione e di timore, accompagnati anche da sensazioni fisiche come aumento del battito cardiaco e della sudorazione. Si usa comunemente l’espressione “ansia da prestazione” per indicare il corteo di manifestazioni sia fisiche che psicologiche connesse al fronteggiare una prova.

A molti sarà capitato di sperimentarla in qualche misura, ma fino a che punto si tratta di una reazione normale e quando può essere considerata invece una patologia?

Già nel 1908 gli psicologi Yerkes e Dodson si occuparono della relazione tra ansia e prestazione elaborando un famoso grafico ad U rovesciata, noto come la curva di Yerkes Dodson. Questo modello illustra il rapporto tra lo stato di attivazione del soggetto e la qualità della prestazione in un compito, dimostrando che livelli moderati e intermedi di attivazione sono correlati alla prestazione migliore. Al contrario, sia livelli troppo elevati che troppo bassi di attivazione sono associati a una prestazione più scadente.

Quindi non solo – come è intuibile – un’ansia troppo intensa influisce negativamente sulla prestazione, ma lo stesso accade anche quando l’ansia è limitata o assente. Un’ansia marcata può compromettere la prova perchè rende difficile concentrarsi, provoca irrequietezza, tensione muscolare, indecisione, confusione, vuoti di memoria, impulsività. Un livello di ansia troppo basso, invece, può comportare un minor stimolo a impegnarsi, dal momento che il compito viene valutato come facilmente affrontabile o si attribuisce poca importanza al risultato. Lo scarso coinvolgimento, la poca attenzione, la minor concentrazione finiscono per produrre una prestazione poco brillante o scadente.

L’ansia di fronte a una prova, pertanto, non è di per sé negativa; è uno stato di attivazione fisiologica e comportamentale, detto anche arousal, che ci permette di affrontare le situazioni e, se si mantiene entro livelli moderati, ci induce a prepararci al compito, impegnarci, essere attenti, concentrati e vigili; permette insomma di utilizzare al meglio tutte le risorse di cui disponiamo.

L’arousal coinvolge il sistema nervoso centrale, periferico e vegetativo. All’aumentare dell’arousal, si intensificano manifestazioni come pensieri e fantasie spiacevoli o francamente catastrofici, senso di impotenza, sintomi fisici come tremore, palpitazioni, inappetenza, disturbi gastrointestinali, irritabilità, insonnia, eccessiva sudorazione.

Ogni persona ha un proprio livello ottimale di ansia/attivazione da prestazione che risulta da molteplici variabili. Sul livello di ansia sperimentato in occasione di una prestazione incidono diversi fattori: individuali, legati alla personalità, alla storia e ad eventuali distorsioni cognitive del soggetto; legati al compito, come la sua difficoltà; dipendenti dal contesto, come la familiarità dell’ambiente o la presenza di un pubblico.

Tra i fattori individuali, hanno un peso l’autostima, la fiducia in sé, il livello di motivazione, il livello di preparazione. Incidono particolarmente la paura di fallire, l’aver già fallito altre volte, il valore attribuito alla prestazione, l’importanza data alle aspettative degli altri, soprattutto quelle dei propri genitori, o dell’insegnante o dell’allenatore, in caso di esami o gare sportive. Alcune strategie di pensiero irrazionali possono alimentare l’ansia di fronte a un compito: il concentrarsi solo sui dettagli negativi, “Suonando ho sbagliato delle note, e poi non ero sciolto come avrei voluto” (filtraggio), il pensare in termini tutto buono/tutto cattivo, “O sono bravissimo, o sono un fallito” (polarizzazione), fare conclusioni generali da un singolo evento, “Ho fallito la prima volta l’esame, non lo supererò mai” ( sovrageneralizzazione), fare previsioni catastrofiche, “Di sicuro farò un disastro e tutti rideranno di me” (catastrofizzazione), enfatizzare l’importanza di un problema, “Da questa gara dipende tutto il mio valore come atleta” (magnificazione), pensare che ogni comportamento degli altri sia riferito a sé, “Mentre esponevo la mia relazione alcuni sbadigliavano: ecco, è perché il mio intervento era noioso” (personalizzazione).

Gli interventi per gestire l’ansia da prestazione spaziano dal lavoro per la modificazione delle distorsioni cognitive e la loro sostituzione con pensieri più flessibili, alle tecniche di rilassamento, alle tecniche di visualizzazione, alla pianificazione degli obiettivi.

Le tecniche di rilassamento, adottate nei giorni precedenti o subito prima della prestazione, permettono di migliorare il sonno e la concentrazione, di regolare la tensione muscolare e la respirazione. Il Training autogeno, ad esempio, consiste in una serie di esercizi mentali che mirano a riequilibrare tensione muscolare, battito cardiaco, ritmo respiratorio, funzione cardiocircolatoria e gastro-intestinale. L’attenzione viene concentrata su specifiche sensazioni corporee e su specifiche formule mentali ( “Il mio cuore batte calmo e regolare”, “Il mio respiro è calmo e regolare”) che inducono un rilassamento fisico e mentale.

Le tecniche di visualizzazione consistono nell’immaginare una scena legata alla prestazione (ad esempio, il momento dell’esame o della gara) in termini positivi, nel modo in cui il soggetto vorrebbe che si realizzasse: immaginare di rispondere in modo fluente, o di eseguire un gesto atletico in modo corretto.

Il goal setting è invece la pianificazione degli obiettivi, ovvero ciò che una persona vuole ottenere con la sua prestazione;  è molto utilizzato in ambito sportivo ma è applicabile a qualsiasi contesto. Spesso, infatti, le persone hanno difficoltà nello stabilire degli obiettivi efficaci; possono tendere a porsi obiettivi sottodimensionati, che portano poi a una scarsa motivazione, o invece obiettivi fuori dalla loro portata, esponendosi a continue frustrazioni e a demoralizzazione, fino alla depressione. Uno dei modelli più utilizzati nel goal setting è il modello SMART, che aiuta a pianificare obiettivi in modo più funzionale. Seguendo i punti principali del modello, un obiettivo efficace deve essere Specifico, non troppo vago o ambiguo, chiaro e proposto in termini positivi; Misurabile in modo oggettivo; Accessibile, ovvero possibile da realizzare, alla portata del soggetto; Rilevante (se troppo facile o poco importante per il soggetto, comporta minor motivazione e concentrazione); essere definito in termini Temporali, come obiettivo a lungo, medio o breve termine.

Infine, focalizzarsi solo sul risultato non è una buona strategia, perché il risultato non è sotto il totale controllo del soggetto; investire troppe energie solo sul risultato espone a un carico eccessivo di pressione. Più utile distribuire l’attenzione non solo sul risultato (l’esito finale, come il voto di un esame o la vittoria di una gara), ma anche sulla performance (migliorare un’abilità necessaria per ottenere il risultato) e sul processo (tutte le azioni compiute per raggiungere il risultato), che sono maggiormente sotto il controllo dell’individuo.

 

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