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18-Mar-20 · Altri articoli

Quarantena, perchè non si rispettano le regole?

I motivi psicologici e sociali dietro la ribellione alle regole della quarantena.

Da psicologa che lavora in ospedale, in questi giorni sono molto colpita dalla preoccupante frattura tra la condizione descritta dai miei colleghi operatori sanitari, il cui disperato appello si leva ormai da più parti, e la percezione della situazione da parte di una fetta ancora troppo consistente della popolazione, con relativa inosservanza delle norme emanate per contenere la diffusone del virus Covid-19. Avverto un contrasto stridente, due mondi quasi non comunicanti.

Vivendo da vicino la drammaticità del lavoro del personale sanitario, ascoltando le angosce di chi deve lavorare con turni massacranti senza sapere se è stato contagiato e senza vedere i propri familiari per timore di contagiarli, il racconto di cosa accade nelle terapie intensive, o le angosce di chi è isolato a casa con sintomi sospetti, nell’attesa di vederne l’evoluzione, non posso fare a meno di chiedermi come possa accadere: com’è possibile che ci sia chi si lamenta perchè semplicemente si annoia in casa, o chi ingaggia interminabili disquisizioni sulle possibili interpretazioni del decreto, cercando la scappatoia del caso particolare, del “Sì, però io…”, che non scatti il bisogno di proteggere sé e i propri cari, o quantomeno il rispetto di fronte a ciò che altri stanno vivendo, magari nella stessa propria città o paese?

Per dare uno sbocco che possa essere costruttivo alla rabbia e alla frustrazione che sento a volte salire dentro, ho deciso di dedicare l’articolo di questa settimana all’approfondimento di questo aspetto, i motivi psico-sociali per cui rispettare la cosiddetta “quarantena” (uso il termine in senso ampio per riferirmi alle indicazioni a stare in casa e non uscire, ad oggi estese a tutta Italia) risulta così difficile.

Un primo motivo è la velocità con cui si sono verificati in Italia sia l’evento epidemia, sia l’adozione di misure stringenti che limitano la libertà individuale, costituendo quindi uno shock. Al pari di altri eventi che impattano fortemente sulla qualità di vita, se non addirittura sulla possibilità di sopravvivenza, che richiedono delle fasi di elaborazione e metabolizzazione prima di giungere all’accettazione, probabilmente anche questa situazione richiede il passaggio attraverso vari step: prima negazione e incredulità, poi rabbia e aggressività per le limitazioni imposte, quindi la contrattazione (“Eh ma si doveva fare prima”, “Ma non sarebbe meglio invece…”), infine la rassegnazione, l’adattamento e l’accettazione.

Un altro motivo, tipico della cultura italiana, è la tendenza a discutere, polemizzare, dare pareri e consigli anche quando non si hanno conoscenze o competenze a riguardo. Notoriamente, a seconda del problema, diventiamo facilmente tutti allenatori, ingegneri, virologi, infettivologi, statistici. Se da una parte la possibilità di confrontarsi, oltre che un diritto, è senza dubbio buona cosa, dall’altra il moltiplicarsi dei pareri spesso discordanti e contraddittori rallenta la presa di coscienza collettiva, l’accettazione e l’adesione alle nuove norme, in un momento in cui agire rapidamente è indispensabile.

L’improvviso cambiamento dello stile di vita è molto difficile da accettare. Sappiamo già, dagli studi sull’argomento, che modificare lo stile di vita è uno dei compiti più difficili per le persone, anche quando il cambiamento può essere spalmato su un più lungo periodo con gradualità. Rinunciare alle proprie abitudini e a ciò che è sentito come un diritto può anzi scatenare inconsciamente la reattanza psicologica, ovvero la ribellione e il tentativo di riappropriarsi a tutti i costi di ciò che è proibito, tanto maggiore quanto più si avverte il cambiamento come imposto.

La comunicazione dei mass media volta a ridimensionare il fenomeno e il continuo sottolineare che la malattia è pericolosa solo per gli anziani con patologie pregresse, hanno contribuito a ritardare la consapevolezza, soprattutto nella parte della popolazione attualmente risparmiata dal grande numero di contagi. Il concetto di “malattia che riguarda i vecchi” rinforza poi, ulteriormente, la tendenza degli adolescenti a non prendere consapevolezza del pericolo, a sentirsi immuni e onnipotenti, come è già proprio della particolare fase evolutiva.

Ad un livello individuale, ci sono persone per cui accettare le restrizioni della quarantena è più difficile. Possono essere persone iperattive, che hanno bisogno di avere continuamente qualcosa da fare per sentirsi vive e se sono costrette a fermarsi sviluppano sintomi ansiosi o depressivi. Lo stesso può accadere a chi ha impostato la propria vita fuori casa, quelli che a casa ci vanno a malapena per dormire e ora ci si sentono costretti. Ci sono famiglie con un elevato livello di conflittualità che viene a stento tenuto a bada dal fare, sostanzialmente, vite separate, o dalla possibilità di allontanarsi fisicamente nel momento in cui si innesca l’escalation dello scontro.

D’altra parte, avere altri familiari in casa può essere un fattore protettivo durante l’isolamento, mentre questo potrebbe diventare intollerabile per chi è solo. Penso a quegli anziani che si ostinano a uscire violando le restrizioni, e mi chiedo se per alcuni il motivo non possa essere proprio questo.

Il meccanismo difensivo della negazione, già citato prima come risposta iniziale ad un evento traumatico, può essere utilizzato sistematicamente dai singoli di fronte allo stress e all’angoscia, portando inconsciamente queste persone a sminuire i rischi e adottare comportamenti impropri.

Ci sono anche distorsioni cognitive che fanno sottovalutare il rischio: ad esempio, la tendenza a pensare che i nostri familiari e amici, le persone più strette vicino a noi, siano sicuramente sane e che quindi possiamo tranquillamente riunirci in casa, invitare i figli al pranzo della domenica ecc, perchè “Tanto siamo fra noi e noi stiamo tutti bene”.

Cosa fare, a fronte di tutti questi ostacoli? Ciò che maggiormente permette di accettare le restrizioni, è la consapevolezza dell’importanza del proprio sacrificio, sapere che si sta facendo qualcosa di grande valore umano per il bene di tutti, che la propria parte è un pezzo indispensabile di un tutto. E poi, chiedere aiuto psicologico (in questo momento disponibile anche gratuitamente online, da parte di associazioni e singoli professionisti) se ci si sente sopraffatti da ansia e depressione, chiedere a chi è solo se ha bisogno di qualcosa o di compagnia anche con una telefonata, usare il tempo non per polemizzare ma per aiutare, ognuno con i mezzi a disposizione: c’è chi può donare migliaia di euro agli ospedali, e chi semplicemente condividendo un appello sui social dà un contributo altrettanto fondamentale. Come il colibrì che porta la sua goccia per spegnere l’incendio nella foresta, facciamo ognuno qualcosa ora, dove ci troviamo e con ciò che abbiamo.

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Signorina lei ha bisogno d'affetto

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