21-Mar-21 · Altri articoli
Perchè la gente legge solo i titoli
Molte persone condividono o commentano sui social articoli che non hanno mai aperto, avendo letto solo il titolo.
Tempo fa ho scritto un articolo sui motivi per cui alcune persone collezionano amori infelici e non riescono a trovare qualcuno con cui costruire una storia duratura. Ho avuto la brillante idea di intitolarlo “Perché non trovo quello giusto?”. Risultato: nei giorni successivi, una decina di telefonate di attempati signori che si proponevano per un incontro, pensando che il mio fosse un annuncio matrimoniale. Oppure, scrivo articoli di psicologia sul malocchio o sui sensitivi, ovviamente per spiegare che è solo la nostra mente a creare certi fenomeni, e puntualmente qualcuno telefona: “Buongiorno, lei toglie il malocchio, giusto? Vorrei prendere un appuntamento!”.
Se all’inizio mi deprimevo, concludendo che evidentemente non so scrivere, o quantomeno non riesco a farmi capire, poi ho dovuto prendere atto dell’incredibile realtà: la gente non legge quello che commenta o che condivide, o meglio, legge solo il titolo. Il titolo è ovviamente molto riduttivo rispetto al testo, e poi di solito viene fatto da una persona diversa da chi scrive l’articolo: deve catturare l’attenzione e quindi si cerca di renderlo attraente, d’effetto, magari estremizzando, o ironizzando. È facile, perciò, che il titolo diventi anche fuorviante rispetto all’articolo, e che solo approfondendo i contenuti diventi possibile leggerlo nella giusta chiave.
Geniale l’esperimento sociale del sito satirico americano Science Post, che ha realizzato e messo in rete un articolo fittizio, costituito da un testo senza senso intitolato “Ricerca: il 70% degli utenti di Facebook legge solo il titolo di quello che condivide”. Bene, l’articolo ha avuto circa 50.000 condivisioni, segno eloquente che almeno altrettante persone si sono affrettate a rilanciare il post senza nemmeno cliccarlo e aprirlo, altrimenti si sarebbero accorte immediatamente della burla.
Anche altre ricerche svolte successivamente hanno rilevato che più della metà dei link condivisi sui social non sono stati mai stati aperti e letti. Inoltre, le persone tendono a condividere e commentare la condivisione fatta da un amico, piuttosto che andare sul post originario.
Ci si fa un’idea sulla base del titolo o al massimo del breve sommario che l’accompagna, perché non si ha tempo e voglia di leggere tutta la notizia, ma poi molto tempo viene speso per commentare, criticare, a volte insultare, o cercare di stupire con la battuta ad effetto. Sempre più spesso ci si imbatte in articoli seguiti da una sfilza di commenti scritti a sproposito, e tocca scorrerne parecchi per trovare finalmente quello che fa notare: “Ma l’avete letto, l’articolo?”. Tuttavia, le poche voci che tentano di ricondurre all’informazione corretta vengono completamente sommerse e naufragano in un mare di esternazioni che nulla hanno più a che fare con la notizia originale, impedendo così discussioni approfondite su argomenti di per sé complessi e oggetto di controversie.
Sembra quindi che le persone siano più propense a condividere le notizie che a leggerle e crearsi un’opinione con delle basi oggettive. Perché questo accade?
In parte, è uno specchio della cultura attuale che rifugge dall’analisi approfondita per ricercare ciò che è semplice, immediato, facilmente fruibile, e possibilmente ad effetto. Doversi fermare a riflettere diventa solo un’ inutile scocciatura: più qualcosa è breve e d’impatto, meglio è. È il trionfo della semplificazione, ma a forza di ridurre e semplificare, si perdono i nessi logici, la concatenazione dei ragionamenti, la complessità dell’argomentazione, e l’informazione risulta incompleta e non più comprensibile.
Aprire un link significa aspettare che venga caricato e uscire temporaneamente dal social. Ebbene, anche un’attesa di pochi secondi è per molti disturbante, tanto che si spazientiscono e tornano al social. L’attenzione è molto limitata, si va di fretta, si cerca di arraffare notizie alla rinfusa senza dover fare la fatica di leggere. Chiunque per lavoro si occupi di contenuti da pubblicare sul web, sa che sul web le persone non leggono, perciò si arrabatta per frammentare in piccoli pezzi più fruibili, per attirare con uso di colori e scelta dei caratteri, sperando di catturare e tenere ancorata la labile attenzione. Scrivere paragrafi lunghi più di qualche riga è considerata una mossa suicida.
Infine, si tende a condividere il titolo che rispecchia e conferma le proprie opinioni e convinzioni e i propri pregiudizi. Soprattutto sui temi caldi, il titolo accattivante che pare dare man forte alla propria posizione viene immediatamente rilanciato, senza approfondire la notizia, dando luogo a scontri furiosi tra opposte fazioni degenerando in diatribe lontanissime dai contenuti originari.
Condividere alcuni contenuti permette inoltre di rimarcare una certa immagine di sé che si vuole mostrare agli altri, di darsi un tono, di dimostrarsi, ad esempio, sensibili a una causa: penso a tutti quelli che, ad esempio, hanno condiviso link sulla giovane attivista ambientalista Greta Thunberg e sono certa che almeno la metà non abbia letto quello che ha postato, non sappia neanche chi sia e perchè sia famosa. C’è il bisogno di essere riconosciuti e apprezzati dagli altri come persone che conoscono e sanno, piuttosto che il reale desiderio di conoscere e sapere.