26-Jun-19 · Altri articoli
Mobbing, quando il lavoro diventa un incubo: gli effetti sulla vittima e come difendersi
Insicurezza, depressione, isolamento: chi subisce mobbing cade in una spirale di disperazione. Determinazione e una rete di supporto aiutano a reagire.
Dall’inglese “to mob”, che significa assalire, il termine mobbing indica una forma di maltrattamento esercitata sul posto di lavoro, caratterizzata da ripetuti comportamenti aggressivi e vessatori da parte di superiori o colleghi. La vittima viene emarginata, criticata, ridicolizzata, calunniata; le vengono assegnati compiti dequalificanti, riceve una retribuzione non adeguata o sanzioni disciplinari eccessive. L’obiettivo del mobbing è avere un controllo sulla persona e soprattutto “liberarsene” inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone il licenziamento, attraverso strategie di distruzione psicologica, sociale e professionale. Non si tratta dell’occasionale atteggiamento sgarbato del capo o del collega che magari ha una giornata storta, un gran mal di testa o qualche problema privato; si tratta di un comportamento regolare, sistematico e continuato nel tempo, un lento stillicidio di persecuzioni e umiliazioni.
Come nasce il mobbing
In Italia è condizione comune e “normale” che il posto di lavoro sia di per sé moderatamente conflittuale: episodici diverbi, discussioni, accuse e ripicche, desiderio di emergere per ottenere benefici sono la quotidianità in molti contesti professionali. Su questa base può alimentarsi un vero e proprio mobbing, quando viene individuata una vittima particolare, ad esempio il collega che ha ottenuto una gratificazione e che suscita l’invidia degli altri. Cominciano allora frecciate, accuse, e l’atteggiamento dei colleghi si fa più freddo. Spesso è coinvolto un mobber in posizione superiore a quella della vittima: il capo può essere il promotore della vessazione, in cui coinvolge i colleghi della vittima, o può limitarsi a tollerare e favorire il mobbing dei colleghi. Sabotare strumenti di lavoro della vittima, escluderla da comunicazioni importanti, sorvegliarla in ogni comportamento, provocarla per indurla a reagire in modo collerico sono solo alcuni esempi di mobbing.
Gradatamente la vittima sviluppa disagio e insicurezza; compaiono poi i primi problemi di salute come difficoltà digestive, insonnia, tremori, depressione.
Arriva quindi il momento in cui la direzione del personale si attiva, in seguito a ripetute assenze o ritardi della vittima o a un calo del suo rendimento. Piuttosto che indagare sulla situazione scatenante, è molto più probabile che la direzione intervenga con richiami disciplinari verso il dipendente. La vittima entra in una situazione di disperazione in cui finisce per convincersi di essere davvero la causa di tutto. I sintomi fisici si aggravano e a volte anche la famiglia, stanca di avere a che fare con una persona compromessa dal punto di vista psicologico, finisce per ritirare il suo sostegno emotivo e sociale, con ulteriore sofferenza della vittima. L’esito ultimo del mobbing è l’uscita dal posto di lavoro, per dimissioni, licenziamento o prepensionamento.
Gli effetti sulla vittima
Il principale effetto del mobbing è l’isolamento: la vittima si sente sola contro il nemico, senza via d’uscita, e spesso non riesce a capire il motivo di tanto accanimento nei propri confronti. Perde gradatamente potere decisionale, rispetto degli altri, fiducia in sé, entusiasmo nel lavoro, amici e salute. Può soffrire di mal di testa, gastrite, irrequietezza, difficoltà di memoria, depressione, ansia, fino ad arrivare al suicidio. Non risulta esistere una personalità tipica a rischio di essere vittima di mobbing: potrebbe accadere a chiunque. Tuttavia, alcune situazioni sono più predisponesti: essere l’unica donna in un contesto lavorativo maschile o viceversa, essere la persona più qualificata, o la nuova arrivata, o ancora la più brillante o la meno efficiente. Avere insomma un elemento di diversità rispetto agli altri, può rappresentare un rischio.
Il mobber
Il mobber è colui che mette in atto la vessazione. Può essere spinto dal timore di perdere la sua posizione, dal desiderio estremo di fare carriera, o da semplice antipatia personale. Può avere una personalità autoritaria e collerica, tratti narcisistici e un esasperato egocentrismo. Può agire da solo o cercare alleati. Mobber e mobbizzato sono infatti raramente soli uno contro l’altro: più spesso in un posto di lavoro c’è un numero variabile di altri personaggi. Questi hanno comunque un ruolo, nella vessazione, anche se passivo; del resto, il termine mobbing viene utilizzato in ambito etologico per indicare l’accerchiamento del branco, che isola un individuo per espellerlo.
Gli spettatori parteggiano apertamente, ma più spesso tacciono e fingono di non vedere per timore di essere coinvolti e di subire ritorsioni. Si crea così un clima di omertà che permette al mobber di agire indisturbato. Chi tace, insomma, acconsente e diventa complice, contribuendo col proprio silenzio alla distruzione psicologica della vittima.
Come uscirne
Occorre innanzitutto evitare di cadere nella trappola dei sensi colpa: pensare, cioè, di essere veramente incapace, o non meritevole, come appunto il mobber vuole fare credere alla vittima. Il disagio è causato dal mobbing, e non da propri difetti o incapacità. Confidarsi con familiari e amici, evitando di isolarsi, consente di avere una rete di supporto e di solidarietà. É importante ricordare che non si è soli, ma che migliaia di persone vivono la stessa situazione.
Anche se la tentazione di dare le dimissioni è forte, è bene evitarlo, anche perché è proprio ciò a cui mira il mobber. Al contrario, essere puntuali, efficienti e irreprensibili sul lavoro non darà spunti per ulteriore accanimento. É opportuno anche evitare periodi di malattia oltre lo stretto necessario, in quanto al ritorno, in genere, si trova una situazione peggiorata, in quanto il mobber ha agito indisturbato alimentando l’ostilità generale verso la vittima.
E’ importante mostrare subito di non essere disposti ad accettare soprusi, senza attendere che la situazione degeneri. Se il mobber è un collega, è utile parlarne prima in modo informale con il capo, segnalando il fatto concreto piuttosto che accusando la persona, evitando impulsività e aggressività e cercando invece di mantenere un atteggiamento costruttivo. In ogni caso occorre parlare con una persona di fiducia tra i colleghi, i capi, o con il responsabile del personale.
Se questo non fosse sufficiente, è possibile rivolgersi al sindacato o al legale di un patronato. É sempre opportuno mettere per iscritto e far protocollare o inviare per raccomandata le proprie richieste. In vista di un’azione legale, è utile documentarsi, raccogliere informazioni che servano da prove, fare un diario di ogni vessazione subita e un resoconto di ogni sintomo fisico provocato dal mobbing.