11-Mar-23 · Ciclo vitale, eventi e ricorrenze
La morte dei genitori: il passaggio che ci cambia per sempre
La perdita dei genitori rappresenta un diffcile passaggio vitale che comporta un profondo impatto psicologico.
Offre ben poco conforto, il pensiero che in fondo fossero anziani, che si tratti dell’ordine naturale delle cose, che la perdita fosse da mettere in conto: la morte dei nostri genitori, anche quando siamo ormai adulti, resta uno degli eventi più dolorosi della nostra esistenza, uno spartiacque tra un prima e un dopo che ci cambia per sempre. Molte persone sottovalutano la portata psicologica di questo passaggio e, nel momento in cui mi chiedono un supporto perché sentono che la sofferenza le sovrasta, manifestano vergogna e senso di colpa: «Non dovrei fare così, sto esagerando», «In fondo aveva la sua bella età», «In fondo ho avuto tutto il tempo di prepararmi», «Mi sento un vigliacco a reagire così alla mia età, quando ci sono bambini che perdono genitori giovani», «Ci sono persone che affrontano la morte di un figlio, e io non sono capace di superare la perdita di mio padre novantenne!», «Dovrei lasciare il posto a chi davvero deve affrontare vere tragedie». C’è la convinzione che, trattandosi del corso naturale delle generazioni, la morte dei propri genitori debba essere superata con più facilità e costituisca un lutto di portata meno drammatica rispetto ad altri. In realtà, la perdita dei genitori ha delle caratteristiche peculiari e uniche che la rendono particolarmente destabilizzante e che spiegano come mai la sofferenza possa raggiungere un’intensità tale da richiedere un aiuto specialistico.
I genitori costituiscono la nostra prima relazione, sono le figure affettive che ci sono sempre state, che erano presenti all’inizio della nostra esistenza e dei nostri ricordi, che per prime si sono prese cura di noi. Non abbiamo memoria ed esperienza di un tempo senza di loro, perciò la loro mancanza costituisce un vuoto che facciamo particolarmente fatica a immaginare e concepire.
I genitori sono, normalmente, coloro da cui ci sentiamo amati, compresi, accettati, sono quelli che si preoccupano per noi, che pensano a noi, in un modo diverso da come potrebbe fare un partner o un amico. Ci sentiamo “tenuti nella mente” dai nostri genitori, e questa consapevolezza ci accompagna per tutta la vita. Anche quando sono invadenti e quando le loro attenzioni ci opprimono, la sicurezza di essere pensati, qualunque cosa accada, è comunque una rassicurante rete di protezione. La morte dei genitori ci fa provare l’angoscia di non essere più pensati da loro, contenuti nella loro mente, tanto da avere la sensazione di andare in pezzi, e ci fa avvertire la dolorosa consapevolezza che, per quanto troveremo nella nostra esistenza partner, familiari e amici amorevoli, nessuno avrà per noi quell’amore incondizionato che riceviamo solo (e non sempre, purtroppo) dai nostri genitori.
Venendo meno i genitori, cambiano i rapporti familiari, i rapporti tra le generazioni, portando all’assunzione di nuove responsabilità, ad esempio trovandosi ad assumere su di sé quei compiti che normalmente svolgevano loro. Quando un genitore muore, si modifica anche il rapporto con l’altro, che improvvisamente diventa un rapporto uno-a-uno e non più un rapporto con la coppia genitoriale.
La scomparsa dei genitori ci sbatte in prima linea, non siamo più coperti da loro, e improvvisamente percepiamo più vicina e nitida la prospettiva della nostra stessa morte. Se fino a questo momento avevamo potuto eluderla coltivando l’illusione di un tempo indefinito, la realtà della fine si impone nella sua spietatezza e ci fa percepire la nostra stessa finitezza in modo molto più acuto. Improvvisamente la vita stessa può apparire priva di senso: «A che serve, se alla fine ci riduciamo ad essere solo una foto su un comodino? Che ne è di tanti progetti e affanni? Non resta nulla!». Se da un lato la riflessione innescata sulla propria mortalità più aiutare a capire cosa conta davvero per sé e spronare a non rimandare i progetti e a vivere la propria esistenza in modo più pieno e autentico, dall’altro è difficile eludere completamente il confronto con vissuti di desolazione, amarezza e perdita di senso.
Insieme alla persona del genitore, perdiamo anche una parte di noi. Non solo perché il depositario della nostra storia, e soprattutto dei nostri primi anni di cui non abbiamo ricordo, se ne va portando via per sempre la possibilità di chiedere, ricordare insieme, avere informazioni su di noi e sulla nostra famiglia, ma anche perché, a un livello più profondo, perdiamo la condizione di figli. Prima di poter accedere, con il lavoro del lutto, a una nuova dimensione simbolica dell’essere figli, avvertiamo in tutta la sua crudezza la concretezza di non essere più “il figlio/la figlia di”. Avvertiamo un senso di sradicamento, ci sentiamo barche in balìa del mare aperto senza una rotta. Quando la perdita riguarda entrambi i genitori in un periodo di tempo ristretto, come purtroppo è avvenuto per alcune persone a causa del Covid, l’impatto psicologico in termini di disgregazione dell’identità è particolarmente violento.
Venendo meno i genitori, restiamo e diventiamo gli unici responsabili di noi stessi. Se per una vita abbiamo fatto certe scelte per compiacere i nostri genitori, per soddisfare le loro attese, per onorare i loro insegnamenti, o invece per ribellarci alle loro imposizioni, per dimostrare loro che si sbagliavano, per dimostrare di essere diversi da loro, ma comunque, in entrambi i casi, sempre in relazione a loro, con la loro morte siamo improvvisamente liberi e privi, nel bene e nel male, del riferimento a cui ci siamo sempre rapportati. La nostra stessa identità va in crisi: chi sono io? Cosa ho preso dai miei genitori? Cosa in me sopravvive di loro? Cosa voglio tenere del loro modo di essere e cosa voglio lasciare andare? Cosa voglio conservare di ciò che sono diventato in relazione a loro, ora che loro non ci sono più? Quanto mi sento libero e quanto invece sento addosso scomode eredità da non tradire? Così, la loro perdita ci costringe anche a ridefinire noi stessi.
Il lutto è un processo che ha bisogno del suo tempo per svolgersi, un tempo diverso da una persona all’altra ma che sicuramente necessita di diversi mesi. Non è una condizione immutabile, ma un percorso emotivo in cui si succedono lo stordimento, la rabbia, la ricerca disperata e struggente di chi abbiamo perso, la disperazione e infine il ritorno della possibilità di vivere e riprogettare, accettando che quella persona non sia più presente nella nostra quotidianità ma mantenendo il legame nel ricordo. Nel lutto, non c’è altro modo di superare il dolore, se non provarlo, viverlo e attraversarlo. Concedendo legittimità ed espressione a tutte le emozioni, senza cercare di soffocarle o di rimandarle, si dà modo al lavoro del lutto di procedere, di trasformare la relazione con la persona perduta, di collocarla in una nuova dimensione e di adattarsi a un mondo in cui lei non c’è.