13-Aug-23 · Ciclo vitale, eventi e ricorrenze
La morte, il tabù che dà senso alla vita
La nostra epoca rimuove l'idea della morte, rendendola terrifica. Eppure abbiamo bisogno di pensare la morte per vivere pienamente.
“Solo qui posso parlare di queste cose”, dicono molti pazienti riguardo al tema della morte. Solo nello spazio protetto e accogliente della psicoterapia, sentono che qualcuno regge il peso di quella parola o, più semplicemente, gli permette di pronunciarla senza affrettarsi a cambiare discorso. Chi sta vivendo un lutto sente che, dopo i primi tempi, dagli altri arriva la pressione a smettere di parlare della perdita e a farsi forza per andare avanti. Chi vive l’esperienza di una malattia grave e della eventualità di una morte vicina, non trova orecchio disposto ad ascoltare paure e desideri, perché quasi tutti scappano, o si prodigano per consolare bloccando la comunicazione e dicendo “Non devi dire così, non lo devi neanche pensare!”. Così la morte non è dicibile né pensabile, è censurata, e quando il pensiero di essa si fa strada nella mente, fa ancora più paura.
Noi esseri umani sappiamo di dover un giorno morire, e per poter tollerare la consapevolezza e la paura della morte senza esserne paralizzati, le releghiamo nell’inconscio. D’altra parte, abbiamo da sempre fatto ricorso a rituali, e soprattutto a rituali religiosi, per dare un senso alla morte e contenerne l’angoscia, rituali che però oggi, con la crisi delle religioni, hanno perso il loro potere consolatorio. Oggi non sappiamo più come gestire l’angoscia di morte e siamo ancora di più portati ad espellerne l’idea dalla mente.
Parlare della morte è deprimente, è ansiogeno, “porta sfortuna”, è di cattivo gusto, è “pornografico”, molto più che parlare di sesso. La nostra epoca esalta valori come giovinezza, bellezza, efficienza, successo, benessere, spensieratezza: non c’è posto per il tema della morte e della perdita. Più l’aspettativa di vita si allunga e più abbiamo mezzi per rinviare la morte, meno diventiamo capaci di affrontarla. La morte è l’unico limite insuperabile di fronte a cui la tecnica deve arrendersi, un orrore ancora misterioso e irrisolvibile da cui non resta che scappare più possibile.
Oggi viviamo un profondo allontanamento dal rapporto con i morti, con una rarefazione dei rituali funebri, con l’impedimento ai bambini ad accedere alla visione di un proprio caro morto, rimuoviamo la morte e rifuggiamo ogni situazione che la richiami. La morte è medicalizzata, allontanata da casa e dalla famiglia, non è più un’ esperienza condivisa, non abbiamo neanche le parole per nominarla e per consolare la persona morente o in lutto. Non abbiamo familiarità con la morte, perciò la temiamo ancora di più. Manca una conoscenza diretta della morte e del morire, mancano i riti domestici, manca il supporto della comunità che in passato era parte del processo di elaborazione. Non riusciamo neanche a dire “è morto” e preferiamo usare espressioni come “è venuto a mancare”, “se ne è andato”, “ci ha lasciati”.
D’altra parte, persino le scienze psicologiche hanno cercato di evitare il tema della morte e dall’angoscia che suscita. Come illustrava Luigi De Marchi in un suo interessante articolo, la centralità dell’angoscia di morte come origine della sofferenza umana viene negata in gran parte della psicologia e della psichiatria: “paradossalmente, proprio le scienze che hanno dedicato immense energie allo studio di due fenomeni capitali della psiche umana, l’angoscia e la rimozione, hanno finito per rimuovere o negare la massima e più antica angoscia umana”.
Freud, anzi, arrivò a sostenere che nella specie umana vi sia un istinto di morte, un desiderio autodistruttivo, che lo scopo della vita sia la morte: forse una difesa per rassicurarsi e consolarsi rispetto a profonde angosce di morte che lo stesso padre della psicoanalisi verosimilmente dovette sperimentare, considerando la sua biografia. In generale il tema degli atteggiamenti umani verso la morte appare trascurato nella letteratura psicologica e non solo in quella psicoanalitica e l’angoscia di morte è stata negata o considerata un travestimento di altre paure, perciò sembra che la stessa psicologia sia vittima di questa “cecità” difensiva. Eppure la paura della morte è universale, poco modificata dalla cultura e religione di appartenenza, e il tema della morte è costantemente presente e si manifesta, solo per fare alcuni esempi, con l’ipocondria, con gli attacchi di panico, nei sogni.
La nostra società scoraggia il pensiero della morte sia negli adulti che nei bambini, invece servirebbe proprio una cultura della morte. Meno è compresa l’idea di morte, maggiore è l’ansia che essa suscita, quindi è necessario parlarne, normalizzarla. È questo lo scopo della "death education", un’attività educativa finalizzata a informare sulla morte e a rendere più consapevoli e competenti nella gestione della morte propria e altrui, attività che può essere proposta a qualunque età.
Ma, di più: come insegnano coloro che devono confrontarsi necessariamente con l’eventualità e la paura della morte, come durante una grave malattia, e che ne fanno motore di crescita interiore, il pensiero della morte ci permette di mettere a fuoco le nostre priorità e di cominciare a vivere appieno, ed è perciò necessario per una vita piena e autentica. Di fronte alla prospettiva della morte, molti problemi si ridimensionano e molti freni e remore a realizzare quanto veramente desideriamo vengono a cadere. Nella vita quotidiana siamo assorbiti dalla routine e agiamo in automatico, correndo ciecamente verso qualcosa su cui normalmente non riflettiamo. Solo le circostanze forti come l’evenienza della morte e il confronto con essa sono in grado di scuoterci e aprirci gli occhi. La morte perciò insegna a vivere, dà una direzione alla vita, fa luce su ciò che si è e ciò che si vuole. Possiamo vivere un’esistenza genuina, solo integrando in essa il concetto della morte.