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18-Oct-24 · Altri articoli

Perché nessuno è profeta in patria: i motivi psicologici

Veniamo  apprezzati per i nostri meriti maggiormente in un ambiente estraneo, che nella cerchia delle persone vicine. Come mai accade?

Il detto “Nessuno è profeta in patria” indica la condizione per cui raramente una persona gode di prestigio e riconoscimento nel luogo in cui è nata e in cui tutti la conoscono, mentre è più facile che questo accada altrove, lontano, tra estranei.  Indica perciò la difficoltà a emergere ed essere apprezzati in ambienti familiari, di contro a una maggiore possibilità di vedere riconosciute e di poter dispiegare le proprie capacità in ambienti estranei.

“Nessuno è profeta in patria” è la traduzione abbreviata della frase “Nemo propheta acceptus est in patria sua”, riferita dai Vangeli come pronunciata da Gesù in relazione alla scarsa accoglienza mostrata dai suoi conterranei nei suoi confronti, in occasione del discorso nella sinagoga di Nazareth. In tale occasione, i presenti si mostrano freddi e scettici nei suoi confronti e lo ridicolizzano identificandolo per come sono abituati a conoscerlo: il figlio del falegname Giuseppe, e nulla di più.

Perché il proprio operato non viene apprezzato proprio da coloro che sono più vicini, come familiari, amici, colleghi, compaesani? Perché proprio chi ci conosce meglio e ha maggiormente occasione di osservare le nostre qualità e i nostri risultati, sembra non valorizzarli come meriterebbero? Le possibili spiegazioni sono molteplici:

– Ciò che è abituale, che è routinario e che abbiamo sempre a disposizione viene vissuto come scontato. Questa è una regola che vale per tutto: tendiamo a non riconoscere il valore di una cosa quando è vicina e disponibile, e a percepirlo solo nel momento in cui ne siamo privati o quando quella cosa è più difficilmente raggiungibile.

-La persona “profeta”, intendendo con questo termine la persona che porta qualcosa di nuovo, che emerge o spicca per qualcosa (e non parliamo necessariamente di livelli estremi, di genialità) è spesso incompresa dai suoi contemporanei e conterranei proprio per il suo essere diversa, per il guardare oltre, per vedere ciò che gli altri non vedono, perché precorre i tempi, perché pensa in modo divergente dalla massa. Viene perciò difficilmente compresa, soprattutto nel suo ambiente dove è maggiore l’aspettativa che si conformi alle norme del suo gruppo.

– Gli altri ci incasellano nei ruoli in cui ci hanno sempre conosciuto e ci vedono in un modo rigido che ostacola nuove percezioni e, in particolare, ci toglie autorevolezza: Gesù non era ritenuto credibile dai conterranei che continuavano a vedere in lui il piccolo figlio del falegname che avevano visto crescere; il genitore viene deriso e non ascoltato dai figli mentre le stesse cose dette da un estraneo vengono recepite; facciamo fatica ad affidarci al bravissimo medico Tizio Caio figlio dei vicini di casa, perché continuiamo a vedere in lui il bambino a cui offrivamo le caramelle o spingevamo sull’altalena.

– Diffidiamo di chi è vicino e simile a noi e siamo scettici nei suoi confronti perché in realtà diffidiamo di noi stessi: proiettiamo insomma nell’altro i nostri aspetti meno desiderabili, per cui l’altro “non può essere tanto meglio di noi”.

– Gli altri possono provare invidia nei nostri confronti e perciò deliberatamente ci svalorizzano o non riconoscono e apprezzano ciò che siamo e facciamo. L’invidia è un sentimento umano molto comune da cui nessuno può dirsi immune. L’invidia nasce dal desiderio di avere qualcosa che a sé manca e che altri possiedono, soprattutto in un campo per sé molto significativo. Comprende in sé un misto di dolore, frustrazione, impotenza, risentimento, ostilità, desiderio di danneggiare l’altro. Esiste un’invidia positiva che riconosce i meriti o la fortuna dell’altro e che spinge ad imitarlo per ottenere gli stessi risultati, ed esiste un’invidia negativa che innesca un risentimento distruttivo, sofferenza per la felicità di un altro  e desiderio di togliere all’altro ciò che non si riesce ad avere. Proviamo invidia soprattutto verso le persone più vicine a noi e più simili a noi, perché il fatto di avere condizioni di partenza simili ci rende ancora più inaccettabile il fatto di non raggiungere gli stessi risultati, perché il successo di uno della nostra cerchia può intralciare il nostro, mentre siamo meno invidiosi di persone lontane dal nostro ambiente o che emergono in campi in cui non ci sentiamo in competizione. Riuscire a condividere sinceramente la gioia e i successi delle persone vicine è purtroppo assai più arduo che essere solidali con loro quando sono in  difficoltà. Avere sempre vicino, proprio sotto gli occhi, chi raggiunge qualcosa che ci manca, acuisce la frustrazione e la sofferenza.

– Le persone più vicine ci conoscono bene e conoscono quindi anche tutti nostri lati negativi e le nostre debolezze. Mentre gli estranei possono essere maggiormente colpiti da nostre qualità o meriti, chi ci conosce bene ha una visione più complessa e ambivalente in cui i nostri aspetti positivi vengono ridimensionati. Al contrario, chi non ci conosce può formarsi un’immagine idealizzata di noi.

– Conquistare un’identità autonoma è il compito di ogni individuo. Diventare autonomi, o meglio “individuarci”, significa separarci dalla nostra famiglia di origine, non solo fisicamente, ma soprattutto emotivamente. Significa realizzare noi stessi in modo pieno e  autentico, anche a costo di dover deludere le aspettative dei genitori, di non rispondere all’immagine che essi hanno di noi e alle fantasie che già da prima della nostra nascita essi proiettano su di noi. Rimanere “in patria”, nel senso più lato di rimanere nell’ambito familiare, nell’orbita dei genitori e delle loro attese, costituisce un ostacolo alla piena realizzazione di sé e al completo dispiego della propria identità. Come se dovessimo necessariamente andare lontano, per poter diventare noi stessi e svilupparci al massimo delle nostre potenzialità. Perché? Se siamo ancora con-fusi con la nostra famiglia di origine, possiamo sentire di tradire le aspettative dei nostri genitori se assecondiamo ciò che intimamente siamo, e quindi ci blocchiamo e non diamo spazio a ciò che ci corrisponde profondamente, ci reprimiamo, tarpiamo la nostra evoluzione. Può trattarsi di un nostro timore, ma spesso è più di una nostra sensazione: obiettivamente la famiglia ci ostacola con pressioni, critiche, disapprovazione, manifestazioni di delusione. Questo accade perché la famiglia è un sistema, e tutti i sistemi tendono a mantenere l’equilibrio preesistente, oppongono resistenza al cambiamento, temono come una minaccia il movimento di un membro in una direzione nuova, diversa, imprevedibile. L’individuazione è invece proprio la possibilità per il singolo di muoversi in modo svincolato rispetto alla “massa indifferenziata dell’Io familiare, ovvero l’insieme dei modi di pensare, di sentire e di funzionare della famiglia, e pervenire a una propria unicità.

 

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