22-Jun-24 · Psicologia del benessere
Metabolizzare cambiamenti e perdite, perché ci occorre tanto tempo?
Eventi stressanti e cambiamenti richiedono un tempo di elaborazione molto lungo che tendiamo a sottostimare.
«Quanto tempo ci vorrà ancora?», «Perché sto ancora così male?», «Mi arrabbio con me stesso perchè ancora penso a lei che mi ha lasciato!», «Ormai sono sei mesi che ho dovuto cambiare lavoro e ancora non mi va giù, non è normale», «A quest’ora dovrei aver dimenticato», «Mia madre è morta quattro mesi fa e io ancora non l’ho accettato, non sto reagendo come dovrei»: sono solo alcuni esempi di come percepiamo la dimensione del tempo quando ci troviamo a vivere e attraversare eventi stressanti, cambiamenti, perdite, lutti, qualunque situazione che abbia determinato un’attivazione emotiva significativa o in cui si siano investite energie.
Il pensiero comune su quale sia il tempo necessario per elaborare, metabolizzare e superare piccoli e grandi “scossoni” della vita è palesemente in contrasto con la realtà dei tempi psicologici: sistematicamente sottostimiamo il tempo necessario. Questo significa che ci aspettiamo di sentirci emotivamente meglio nell’arco di un tempo troppo breve, in cui sentirsi meglio non è possibile. Ne consegue un ulteriore problema, un problema nel problema creato dalle nostre aspettative distorte: ci sentiamo in colpa, pensiamo che non stiamo reagendo come dovremmo, pensiamo di essere deboli o stupidi, ci arrabbiamo con noi stessi per non riuscire a fare altrimenti, andiamo in ansia perché il dolore non passa e pensiamo di avere qualcosa che non va, lottiamo contro emozioni e pensieri che, secondo le nostre convinzioni, “ormai” non dovremmo più avere, col solo risultato di rafforzarli ulteriormente. La nostra mente funziona infatti in questo modo: i pensieri e le emozioni negative hanno bisogno di fare un loro corso, e se noi vogliamo eliminarli prematuramente, la mente ce li ripropone in modo ancora più insistente. Perciò, paradossalmente, più tentiamo di abbreviare i tempi di elaborazione di un evento o di una situazione, più rischiamo di allungarli.
«Ho capito perfettamente che non era la persona adatta a me, che anzi è stato meglio perderla, ma perché allora ci sto ancora male?», «Razionalmente so che questo nuovo lavoro è migliore per me, ma allora perché ancora soffro per quello che ho dovuto lasciare?»: la risposta è proprio in quel “razionalmente”. Applicando la razionalità, la logica, dovrebbe essere relativamente semplice e rapido assorbire cambiamenti, prendere decisioni, superare delusioni, archiviare perdite e fallimenti, godere di novità positive. Me le emozioni hanno tempi diversi, sono molto più lente. Se la comprensione razionale arriva presto, quella emotiva è sempre a seguire, con tempi più o meno lunghi e soggettivi, ma immancabilmente più lenta e tortuosa di quella razionale.
Per chi, come me, si occupa di malattie gravi e di lutto per la perdita di una persona cara, i tempi lunghi di elaborazione psicologica sono pane quotidiano: mesi o anche anni di metabolizzazione sono la norma, in queste situazioni. Il corso fisiologico del dolore e della sua accettazione si sviluppa in questo tempo, statisticamente da 6 mesi a due anni, ma con grandi variazioni individuali. Può succedere che il decorso sia patologico e ancora più lungo, ma anche il sano, fisiologico, normale decorso dell’elaborazione psicologica di questi eventi è di per sé molto più lungo di quanto le persone si aspettino.
Anche in situazioni meno drammatiche di una malattia grave o di un lutto, è necessario comunque un tempo di metabolizzazione, o di “digestione”. Si dice che il tempo guarisce le ferite, ma non si tratta dello scorrere del tempo in sé, quanto di ciò che accade in questo tempo: un complesso e sofisticato lavoro interiore. Ogni volta che affrontiamo eventi o situazioni che determinano un cambiamento significativo per noi, attraversiamo una successione di fasi emotive che ci permettono infine di superarli, accettarli e riorganizzarci. Le teorie a riguardo sono diverse, ma sostanzialmente concordano su una serie di reazioni emotive che tutti dobbiamo attraversare: incredulità e rifiuto della realtà, poi rabbia, paura e tristezza, poi negoziazione (cercare di venire a patti con la nuova realtà), poi depressione, e infine accettazione e riorganizzazione. Il tutto può richiedere giorni, mesi o anni a seconda dell’entità dell’evento e di moltissime altre variabili legate alla persona e al suo contesto; inoltre il tutto non è così lineare ma prevede sovrapposizioni e cicliche riattivazioni di tutto il percorso se sopraggiungono nuovi assestamenti.
Perché, pur essendo così palese la lunghezza dei tempi di metabolizzazione, noi continuiamo ad aspettarci altro, di guarire presto, di tornare velocemente quelli di prima, tanto da aggiungere una sofferenza ulteriore a quella originaria? Molto dipende dalla cultura in cui viviamo, in cui siamo esortati a stare sempre bene, ad essere efficienti e produttivi, a rimetterci subito in pista. Viviamo in una società basata sul tempo, su scadenze da rispettare, dal ritmo frenetico, scandito da continue sveglie per rispettare la tabella di marcia, in cui tutto è cronometrato e l’importante è non fermarsi, perché fermarsi è visto come negativo, sbagliato, da deboli, da pigri, da svogliati, da persone che non sanno cosa vogliono, da vigliacchi. Il tempo accelerato in cui ci costringiamo a vivere è sempre più lontano e scollegato non solo dal tempo e dai ritmi della natura, ma anche dai tempi necessari alla nostra mente. Il singolo individuo ha un potere limitato nel modificare o invertire fattori culturali che sono un prodotto di variabili storiche e sociali, ma anche in questo caso conoscenza e consapevolezza permettono di vedere con più chiarezza, di distinguere un problema effettivo da uno indotto dalla cultura di appartenenza e di riappropriarsi del proprio tempo e ritmo, qui intesi come tempo e ritmo di metabolizzazione interiore.