18-Oct-24 · Comunicazione e relazione interpersonale
Volontariato: perché la buona volontà non basta
Fare volontariato costituisce un compito spesso complesso e delicato in cui non basta solo il desiderio di aiutare gli altri.
Chi si rivolge alle associazioni di volontariato per offrire la propria disponibilità a diventare volontario, di solito si aspetta di essere immediatamente accolto e pensa che avere buona volontà di aiutare gli altri sia il requisito necessario e più che sufficiente per mettersi all’opera. Molti restano perciò contrariati quando scoprono che, nella maggior parte delle associazioni, sono previste una valutazione iniziale e una formazione, prima di poter diventare operativi, e sono inoltre stabilite delle regole organizzative e delle norme di comportamento. Questo vale soprattutto in quegli ambiti dove il volontario entra in contatto con realtà complesse e svolge un ruolo estremamente delicato, come quando, ad esempio, si relaziona con bambini o adulti gravemente malati.
LE MOTIVAZIONI: NON SOLO AMORE PER GLI ALTRI
Perché il volontariato non è semplicemente questione di buona volontà di aiutare? Innanzitutto perché la volontà di aiutare è solo una delle motivazioni che spingono a fare volontariato e chi si avvicina a questo mondo deve essere consapevole delle molteplici sfaccettature che sono alla base del proprio desiderio. Esistono diverse teorie su ciò che motiva le persone a fare volontariato. Uno dei modelli più noti è quello di Snyder che prevede sei classi di motivazioni:
- L’interesse umanitario: aiutare gli altri, le persone meno fortunate. Sono i valori personali di solidarietà, di equità e di altruismo. È questo che, in genere, chi fa volontariato o chiede di farlo porta come motivazione esplicita.
- Esprimere capacità o qualità personali che non si ha modo di mettere in pratica.
- L’interesse per le relazioni sociali: essere parte di un’associazione permette di condividere ideali, trovare affinità, costruire nuovi rapporti, alleviare la solitudine.
- Acquisire competenze, crescere, mettersi alla prova, sperimentarsi sul campo e avere maggiori possibilità di trovare lavoro.
- Riparare sensi di colpa per vicende personali, sviare l’attenzione dai propri problemi occupandosi di quelli degli altri. In questo modo, fare volontariato funge da meccanismo di difesa dal proprio dolore.
- Accrescere la propria autostima attraverso il riconoscimento che si riceve. Essere rispettati, lodati, sentirsi dire “grazie”, fa sentire utili e importanti.
Non c’è dunque da scandalizzarsi nel riconoscere anche nella propria decisione un peso rilevante delle esigenze personali. Al contrario, noi psicologi ci preoccupiamo maggiormente quando un aspirante volontario nega categoricamente la presenza di un qualche bisogno personale nella propria motivazione. Ogni volontario può, ascoltandosi sinceramente, trovare in sé, in qualche misura, una o più di queste motivazioni. Ognuno può avere in sé una diversa mescolanza o combinazione di questi elementi. Ciò che conta è riconoscerlo, esserne consapevoli ed eventualmente lavorarci per un maggiore equilibrio.
ABBI DUBBI
Una eccessiva sicurezza in sé preoccupa noi psicologi più dei dubbi, quando ci occupiamo di aspiranti volontari. Chi mostra qualche esitazione, qualche incertezza sulla propria capacità di svolgere il ruolo di volontario, si dimostra anche più consapevole della complessità del compito, più disposto a monitorarsi, ad aggiustare il tiro.
Le persone più sicure sono spesso quelle che hanno già vissuto un problema analogo a quello degli assistiti a cui vogliono rivolgersi e, in virtù del fatto che hanno già superato quella situazione, sentono di essere proprio le persone più indicate per essere di aiuto. Il rischio, in questi casi, è che l’eccessiva sicurezza porti, ad esempio, a un minor ascolto dell’altro, a una minore prudenza, a una tendenza a proporre agli altri il proprio modo di reagire o di affrontare il problema, che potrebbe non essere quello adatto all’assistito.
TROVARE IL POSTO GIUSTO
Il colloquio di conoscenza che in genere è previsto per i nuovi aspiranti volontari è anche un’occasione per approfondire qualità personali, attitudini, punti di forza e di debolezza, difficoltà e paure. Sviscerare tutti questi aspetti permette di scegliere la collocazione migliore per un nuovo volontario, tra le varie mansioni che un’associazione svolge. Il risultato può essere molto diverso dall’aspettativa iniziale: può accadere che una persona arrivi immaginando un ruolo a contatto diretto con persone sofferenti e poi decida di sperimentarsi inizialmente in un ruolo più organizzativo e “dietro le quinte” in cui si sente più a suo agio, o viceversa chi si era proposto per compiti più organizzativi pensando di non “essere all’altezza” di un maggiore coinvolgimento emotivo con gli assistiti, decida di mettersi in gioco nel rapporto diretto. A volte è necessario anche prendere atto di difficoltà che renderebbero il servizio pericoloso sia per il volontario che per l’assistito e decidere dunque di rinunciare, rimandando a un secondo momento oppure reindirizzando altrove la disponibilità della persona, perché non vada sprecata.
LA FORMAZIONE: PERCHÉ LA BUONA VOLONTÀ NON BASTA
Una formazione iniziale è necessaria per diversi motivi, per conoscere la realtà su cui si va a operare, per conoscere l’associazione, per conoscere contenuti specifici. In molte associazioni è prevista una formazione permanente, con incontri periodici che in alcune realtà sono obbligatori. Pensiamo a un ambito come quello oncologico, in cui il volontario si relazione con bambini e adulti affetti da malattie gravi e, purtroppo, si relaziona anche con persone morenti e con familiari in lutto. Non solo è indispensabile conoscere basilari nozioni di psicologia, ma è anche necessario avere uno spazio per riflettere su di sé e sul proprio coinvolgimento emotivo, per trovare il giusto grado di empatia senza bruciarsi, per comunicare nel modo opportuno, per non confondere i propri contenuti emotivi con quelli degli assistiti.
LE REGOLE SERVONO A FUNZIONARE MEGLIO
Osservo spesso nei nuovi volontari un’insofferenza alle regole, o comunque un atteggiamento critico: perché dare dei limiti a “un’opera buona?”. «Perché devo rispettare un orario e non posso fare di più? Perché non posso dare il mio numero di telefono a un assistito? Perché non posso invitare un assistito a casa mia? Sono affari miei, se io sono disponibile, perché mettere un freno alla mia volontà di essere utile?»: sono esempi di obiezioni frequenti di fronte ai regolamenti che ogni associazione stabilisce. In realtà, le regole sono frutto di anni di sperimentazione di ciò che permette di funzionare meglio e di ciò che invece crea problemi, a volte non immediatamente percepibili. Succede ad esempio che i nuovi volontari, animati da grande entusiasmo, diano troppo se non viene messo un qualche freno, fino poi a esaurirsi e bruciarsi, soprattutto in ambiti che prevedono un intenso coinvolgimento emotivo. Alcune regole, come quelle che normano il rapporto con gli assistiti, sembrano una limitazione ma in realtà tutelano il rapporto e il servizio e a lungo termine ne garantiscono un miglior funzionamento.