26-Jun-19 · Corpo e malattie organiche
Cancro, come reagire per affrontarlo
Cosa prova una persona che si ammala di cancro? E come dovrebbe reagire per affrontare meglio la malattia?
Non vogliamo neanche sentirne parlare; se qualcuno lo nomina, ci affrettiamo a toccare ferro (o altro…) e cambiamo discorso alla svelta. Lo chiamiamo a bassa voce “brutto male”, o “male incurabile”, come se non si potesse neanche pronunciarne il nome. Invece oggi molte forme di cancro si possono non solo curare, ma anche guarire, o le si può tenere sotto controllo con una buona qualità di vita, grazie ai miglioramenti di chirurgia, chemioterapia e radioterapia.
Molti si trovano a dover fare i conti con questa patologia, perché devono affrontarla in prima persona, o perché hanno un familiare o una persona cara che ne è colpita. E’ importante allora conoscere cosa accade nel mondo emotivo di chi vive questo tipo di malattia, quali strumenti la mente possiede per contrastarla, e come possiamo essere d’aiuto a una persona cara malata.
Quando si riceve una diagnosi di malattia grave, la prima reazione è di shock: “Non può essere vero”, “Deve esserci un errore”. Questo è un meccanismo di difesa che ci aiuta a prendere tempo per non essere sopraffatti dall’angoscia e ad adattarci gradualmente alla nuova realtà. Questo iniziale rifiuto va compreso e rispettato perché utile, a meno che non si protragga così a lungo da ostacolare il ricorso alle terapie.
Dopo la fase di stordimento, presa consapevolezza della malattia, subentra spesso la rabbia: “Perché proprio a me?”. Cerchiamo una spiegazione, una colpa; la rabbia può colpire i medici, il destino, Dio, le persone sane, e spesso i familiari. Questi non sanno come comportarsi e soffrono quando vengono attaccati ingiustamente, ma anche la rabbia è un’importante difesa che aiuta l’individuo ad attivarsi e reagire. Può essere d’aiuto pensare che non si tratta di un attacco personale, ma di una rabbia verso la malattia che si tende a sfogare con le persone più care, con cui ci si sente più liberi .
Alla rabbia si alternano sentimenti di paura e ansia, che fanno normalmente parte del percorso di malattia. In un momento successivo, dominano invece i sentimenti depressivi e la consapevolezza di quante perdite si è costretti a subire a causa della malattia : può essere la perdita di una parte del corpo (i capelli, il seno), o del ruolo sociale (se si deve sospendere il lavoro), o del ruolo familiare (si può non avere l’energia per occuparsi come prima dei bambini, ad esempio). Anche le persone che pensavano di aver reagito bene alla malattia, ora possono avere momenti di sconforto e pianto. Questo è normale e fa parte della elaborazione della malattia, soprattutto quando termina la fase attiva del trattamento, che dà una sensazione di controllo e di protezione da parte dei medici, e ci si ritrova soli a fare i conti con i cambiamenti avvenuti.
Nel percorso ideale della malattia, si raggiunge infine una fase di accettazione, in cui non si è più sopraffatti dalla tristezza o dalla paura, ma si riesce a dare un senso alla malattia all’interno della propria vita. Nonostante sia un’esperienza dolorosa, molte persone riescono a farne occasione di crescita e cambiamento positivo. Dopo la malattia le priorità cambiano, si può diventare più flessibili e capaci di apprezzare le piccole cose e godere del presente, evitando preoccupazioni inutili e incanalando meglio le energie; si selezionano le persone davvero presenti e vicine e si può scoprire la solidarietà dove non si credeva di poterla trovare.
“Devo essere forte, non devo avere paura, non devo piangere”: questo si ripetono molte persone, pensando così di affrontare meglio la malattia. In realtà si impongono una fatica enorme e anche poco utile. Infatti, tra i vari modi di reagire alla malattia, quello più funzionale è lo stile definito “combattivo”: questo prevede sì un atteggiamento attivo e di sfida verso la malattia, la partecipazione convinta e fiduciosa alle cure, il desiderio di informarsi e migliorare lo stile di vita, ma prevede anche normali livelli di ansia e demoralizzazione, che fanno naturalmente parte della reazione emotiva. Queste emozioni cercano uno sfogo, e spesso dopo che hanno trovato espressione si ridimensionano e diventano più tollerabili. Questo stile reattivo è correlato a una miglior qualità di vita: significa che queste persone vivono meglio la malattia, con un maggior benessere emotivo. Altri hanno reazioni diverse: a volte prevale la disperazione, oppure tutta l’esistenza ruota attorno alla preoccupazione per la malattia; altre volte c’è un atteggiamento fatalista e rinunciatario, o ancora l’evitamento, il fare come se la malattia non esistesse, con il rischio di sottovalutarne i rischi. Nessuna reazione va demonizzata, occorre rispettare le modalità personali di reagire, ricordando che nella stessa persona possono anche alternarsi. Un aiuto psicologico è comunque utile per affrontare il percorso di malattia, soprattutto quando ansia e depressione sono tali da compromettere seriamente la qualità di vita.
I familiari di solito credono sia meglio nascondere al malato la sua reale condizione, per evitare che si angosci. In realtà, oltre al fatto che conoscere la verità sul proprio stato di salute è un diritto di ogni individuo, la maggior parte dei pazienti esprime esplicitamente la volontà di sapere, anche se, ovviamente, ciò potrà provocare abbattimento o preoccupazione. Tuttavia nascondere la verità porta alla cosiddetta “congiura del silenzio”, in cui nessuno può più comunicare liberamente i propri bisogni o sentimenti. Il malato quasi sempre sa della propria condizione, ma non ne parla per proteggere i familiari; questi a loro volta cercano di mascherare la loro preoccupazione con una finta allegria e trattengono i propri sentimenti. In questo modo ognuno è isolato con la sua preoccupazione e la comunicazione si blocca.
Molti familiari hanno timore di non saper cosa dire al malato. In realtà non c’è nulla da sapere, non esistono risposte certe, e questo fa sentire impotenti. Eppure basta poco: la semplice presenza, l’ascolto, la condivisione, un gesto di vicinanza. Una semplice frase come “Ti va di parlare?” permette di aprire il dialogo, se la persona malata lo desidera, oppure di fare altro, perché spesso c’è pure il bisogno di distrarsi e pensare ad altro, magari di guardare insieme la tv. Esiste spesso anche il rischio opposto di soffocare la persona malata con la propria continua presenza o con aiuto non richiesto o non necessario, dimenticando che ora più che mai ha un’esigenza vitale di sentirsi autonoma e capace, pur nelle limitazioni imposte dalla malattia.