07-Nov-20 · Corpo e malattie organiche
Quando è il medico ad ammalarsi
I medici che si ammalano tendono a negare i sintomi, a gestire da soli diagnosi e cure e a non chiedere aiuto.
«Che ne sapete voi, di come stiamo noi pazienti!», «Vi farei stare al posto nostro anche solo per un giorno», «Facile per voi, che siete sani!». Mi è capitato, in tanti anni di lavoro in ospedale, di sentir pronunciare dai malati frasi come queste, rivolte ai medici. Accade soprattutto nei momenti di rabbia o frustrazione, in cui i malati sono particolarmente stanchi, sofferenti o delusi da qualche mancanza del medico. Anche al di là di questi momenti di sfogo, è comunque comune che i pazienti vedano i medici o altri operatori sanitari come quelli sani, in una posizione opposta alla loro, considerandoli immuni dalla malattia fisica o da altri accidenti della vita che possano comportare una sofferenza temporanea o costante.
La visione del medico come invulnerabile alla malattia corrisponde a un pregiudizio per cui una figura sanitaria saprà certamente prevenire/proteggersi/ curarsi con molta più facilità rispetto alla popolazione generale, ma va incontro anche al bisogno di affidarsi a un guaritore onnipotente. Immaginare il proprio medico malato angoscia, perché incrina l’illusione e la sicurezza di essere nelle mani di uno che tutto sa e tutto può. La mente si tranquillizza scindendo in modo drastico, da una parte chi sta male, e dall’altra chi sta bene. Tenere insieme i due pensieri è ansiogeno e deprimente.
Eppure anche i medici si ammalano, e magari hanno affrontato poche settimane prima le stesse pesanti cure a cui sottopongono i propri pazienti. Il paziente spesso non si accorge dell’eventuale malessere del medico, perché tutto concentrato sul proprio, e perché il medico stesso vive come un tabù la propria malattia, da nascondere il più possibile.
Le ricerche rilevano chiaramente che i medici, quando stanno male, hanno forti resistenze a rivolgersi a un altro medico, per il disagio derivante dal conflitto tra i due ruoli di medico e di paziente. Tendono a fare autodiagnosi e a prescriversi da soli la terapia, per l’imbarazzo di rivolgersi ai colleghi, nella convinzione che “se non sei in grado di curare neanche te stesso, come puoi curare i tuoi pazienti?”. Il medico vive la sua malattia come debolezza da nascondere. Si rivolge semmai all’amico collega in modo informale, ma in via più possibile riservata.
Lo stesso pregiudizio che hanno le persone comuni sulla salute dei medici, appartiene alla classe medica stessa. I medici, e soprattutto quelli più giovani, tendono a percepirsi inattaccabili dalla malattia, sottovalutano il rischio di ammalarsi e tendono a negare i sintomi quando si presentano. Questo influisce negativamente sui comportamenti di prevenzione e ostacola una diagnosi precoce e un trattamento tempestivo.
Dall’altra parte, il medico che si trovi a curare un suo collega può sentirsi a sua volta in imbarazzo; tende di solito a pensare che il proprio contributo sia inutile, che l’altro sia in realtà perfettamente in grado di procedere senza il suo aiuto, avendo delle competenze tecniche. Tuttavia, a fronte di una maggiore competenza tecnica rispetto al malato comune, il malato che è anche medico ha le stesse paure e ansie degli altri; anzi, ne ha solitamente di più e gestite peggio. Il medico non può evitare di pensare a certe nozioni allarmanti sulla propria condizione, e allo stesso tempo fa più fatica ad affidarsi alla cura di un altro e a trarne rassicurazione. Ha meno occasioni di supporto sociale in cui ricevere sostegno per la propria ansia e tende a chiedere meno un supporto psicologico, nella convinzione di dover essere in grado di risolvere da sé. L’ansia, che è esperienza di ognuno di fronte a una malattia, nel medico può distorcere un giudizio obiettivo: così, pur essendo perfettamente in grado di curare gli altri, può invece commettere errori quando tenta di gestire da solo la propria salute, perché le sue scelte sono influenzate dalle sue emozioni (spesso, a loro volta, relegate in secondo piano più di quanto accada ai malati non medici).
L’essere stato a propria volta malato, può modificare l’atteggiamento verso i propri pazienti. Spesso è una occasione di maturazione e di accettazione della propria vulnerabilità che rende più empatici, più flessibili, più capaci di capire e affrontare le difficoltà dei malati e le loro emozioni. A volte, all’opposto, il continuo rimando alla propria malattia, sollecitato dall’incontro con i propri pazienti, può essere angosciante e attivare, come meccanismo di difesa, comportamenti aggressivi o di distacco emotivo.