23-Jul-19 · Corpo e malattie organiche
I tre fagioli di Giulia: il gusto di vivere a dispetto di tutto
Anche nel dolore e nella rinuncia, fermarsi ad assaporare il momento presente permette di continuare a godere della vita.
Resto sempre colpita dal modo con cui i miei pazienti malati oncologici riescono ad adattarsi alle progressive restrizioni imposte dalla malattia, mantenendo la stessa tenacia per ottenere quello che di volta in volta diventa sempre più piccolo, flebile e precario, e mantenendo la capacità di goderne lo stesso, a dispetto di tutto. Come Giulia coi suoi tre fagioli.
La signora Giulia, lo confesso, era una delle mie pazienti preferite. Intanto perché si vestiva sempre tutta intonata sulle sfumature del viola, e poi perché condividevamo una spudorata passione per il cibo. In effetti, qualunque fosse il punto di partenza, prima o poi la seduta andava a finire lì: in cucina. Descriveva le sue pietanze preferite con un amore tale, che alla fine ne sentivi pure il profumo e il sapore. La sua passione poi erano i legumi, e in special modo i fagioli. Tutto questo nostro parlare di cibi e cucina potrebbe apparire un’inutile chiacchiera, se non fosse che il problema stava proprio lì: una recidiva della malattia di Giulia le imponeva all’improvviso grosse limitazioni nell’alimentazione, estremamente pesanti e frustranti per lei. Faceva tenerezza quando raccontava dei suoi sguardi languidi lanciati ai sacchetti di fagioli nel congelatore: non si dava pace a dover lasciar lì quel ben di dio, diventato improvvisamente veleno per lei. Ma non era una che si perdeva d’animo. Ogni volta faceva le prove con innovativi metodi di cottura o combinazioni alimentari astruse, decisa a trovare il modo di rendere digeribili anche cosucce non proprio light come i gamberetti fritti.
Ricorderò sempre il giorno che arrivò tutta tronfia di soddisfazione, che non vedeva l’ora di raccontarmi l’ultimo esperimento andato a segno. “Ho fatto il minestrone. Ci ho messo le solite cose sai, patate, carote, zucchine…ma stavolta…” - pausa di suspence e occhiata d’intesa – “tre fagioli ce li ho messi cara mia! Li ho pelati per bene tutti e tre, macinati fini fini, e dentro, vedrai che stavolta ti frego io! Tutta un’altra cosa con quei fagioli, sapessi che bontà, me lo sono gustato proprio!”.
Immagino cosa potesse essere rimasto dei tre fagioli dentro il calderone. Praticamente, fagioli omeopatici. Ma lei era riuscita a goderseli lo stesso.
Diceva sempre che il marito era un cuoco eccezionale, specialista del fritto, con cui deliziava tavolate di parenti e amici. Ora lei avrebbe potuto legittimamente irritarsi, davanti alle sontuose fritture che lui continuava incurante a scodellare, pretendere che almeno risparmiasse tanto supplizio alla sua vista e all’olfatto, o disertare, come molti malati fanno, pranzi e cene con familiari e amici, per sottrarsi a tentazioni e frustrazioni. Lei invece era capace di andare al pranzo per la comunione del nipotino, stare tutto il tempo a tavola con gli altri senza lamentarsi, e tornare tutta soddisfatta per essere riuscita a gozzovigliare con un calamaro e una patatina fritta.
I tre fagioli di Giulia adesso li porto sempre con me. Ogni volta che rischio di scivolare nel “É troppo poco”, nel “Che me ne faccio?”, nel “Non ne vale la pena”, mi vengono in soccorso. Mi aiutano a mettere a fuoco, a stare nell’attimo, a goderlo appieno senza inquinarlo con la consapevolezza che durerà poco. Penso “Dai, prova a fare come faceva lei, in fondo cosa cambia? Tre fagioli o cento, un calamaro o venti: di quello che ci piace e che amiamo, è la quantità che conta? È la durata nel tempo? È la sicurezza di averne ancora?”. Fermarsi ad assaporare, sentire di esistere con pienezza, stare nel presente senza rimpiangere il passato o angustiarsi per il futuro. Quanti libri avrò letto cercando di capire come si fa: almeno tre ripiani della libreria. Grossi nomi di filosofi, psicologi, pensatori di tutte le epoche. Ma doveva arrivare Giulia la casalinga tutta vestita delle sfumature del viola, a insegnarmi come si fa.
I tre fagioli di Giulia mi confortano anche quando mi domando cosa resti di noi.
Le persone malate che ascolto hanno spesso bisogno di sentire di aver costruito qualcosa, di lasciare dopo di sé una traccia, che non tutto della propria esistenza vada perduto. Alcune si disperano perché non hanno avuto figli, pensano che “chi riceve la vita deve generare vita” e sentono di aver mancato in un dovere sacro, oppure credono la loro esistenza mediocre e superflua perché non hanno eccelso in qualcosa, lasciato opere, fatto scoperte, inventato alcunchè.
A me viene da sorridere. Per generare vita non è necessario far nascere un figlio.
Basta così poco per generare vita, per cambiare un pensiero, per lasciare un segno. Il minestrone della signora Giulia ha cambiato per sempre la mia mente. Cinque euro scarsi di verdure, mezz’ora per prepararlo, cinque minuti per raccontarmelo: tutto qua. E ora è finito qui. E forse qualcun altro leggerà, e penserà “Ma che è ‘sta storia dei fagioli?”, e magari gli resteranno impressi nella mente, e quando sarà sconfortato li pescherà come me dalla borsa, e proverà a fare come lei, per mantenere il gusto di vivere a dispetto di tutto. Dalla cucina della sua casetta sul mare, chissà che strade prenderanno i tre fagioli di Giulia, e in quali altre case andranno a finire, e se potranno dare coraggio a qualcun altro che soffriva come lei.
Una frase, un gesto, un albero piantato, una ricetta che si tramanda, una musica fatta ascoltare, un’idea che colpisce un altro e passa, contagia e si espande: basta così poco per incidere, trasformare, generare, continuare ad esistere.